Gin, la “bolla” infrangibile

Il fenomeno gin visto attraverso lo sguardo attento di uno dei massimi esperti italiani del distillato: Samuele Ambrosi. Il mercato sempre più competitivo, l’auspicio per la nascita di un “Italian Style” e la consapevolezza che la vera forza del gin risiede nella sua straordinaria versatilità…

di Maurizio Maestrelli

Bartender pluripremiato, Eagle Award ai mondiali di Singapore nel 2005, vicepresidente dell’Associazione Italiana Barman e Sostenitori (Aibes), formatore per Campari Academy, imprenditore trevigiano con il suo Cloakroom Cocktail Lab da sempre uno dei più rinomati cocktail bar italiani, Samuele Ambrosi è sempre stato affascinato dal distillato di ginepro diventandone uno dei massimi esperti italiani. Il suo libro dedicato al gin, Anthologin, è giunto alla terza ristampa ed è stato tradotto in lingua inglese. Con lui cerchiamo di capire meglio il “fenomeno gin” che anche in Italia ha raggiunto un successo quasi impensabile…

– Quando è nata la tua passione per il gin e che cosa hai trovato di così affascinante in questo distillato tanto da dedicargli anni di studi e di ricerche e, alla fine, un libro?

«Sono sempre stato un vero nerd di tutto ciò che faceva parte del mio mondo e dei distillati in particolar modo. Ho studiato, visitato, analizzato tutto ciò che apparteneva al whisky e al cognac in quanto sono state quelle tipologie che hanno accompagnato i miei primi anni, anni in cui il gin era relegato a un sottostimato Gin & Tonic e a un irraggiungibile Martini Cocktail. Invece io credevo ciecamente che il gin avrebbe lasciato un segno e che a differenza degli inarrivabili invecchiati scozzesi e francesi poteva dire la sua perché nasceva pronto, era ed è estremamente versatile in miscelazione e cosa di non poco conto, poteva essere facilmente firmato dal produttore diventando uno strumento di cultura territoriale edibile ineguagliabile. Non mi pareva vero vederlo crescere di anno in anno, vedere che il cliente stesso esigeva etichette sempre più elaborate, pretendeva toniche specifiche e questo abbinamento come dire diventava uno “status” appagante. Immaginate quindi come la mia sete di sapere crescesse sempre di più e trovando le letture presenti a livello internazionale incomplete decisi di costruire passo dopo passo la mia guida, supportato e aiutato da due figure per me fondamentali in questo progetto come la mia compagna Serena e tu»

– Come ti spieghi questa renaissance del gin e il suo successo che sembra essere mondiale e in crescita da anni? Su quali fondamenta poggia?

«Possiamo riassumere tutto questo in due concetti molto sintetici. Il primo in assoluto è che la sua versatilità è la sua vera forza. È un distillato che riesce ad avvicinare un po’ tutti, cosa molto più complicata invece per quanto concerne un whisky o un cognac. E questo ci porta inevitabilmente al secondo punto. Tutti pensano che la grandezza di un prodotto sia determinata dalla popolarità di un drink che lo celebri. In parte potrebbe essere così se pensassimo a un Moscow Mule, un Mojito o a un Paloma, ma allora dovrebbe esserlo stato anche per un Pimm’s (drink oramai dimenticato…) o a un Last Word, drink conosciuto in tutto il mondo a base gin ma che non rispecchia il suo successo nei volumi. Provate a pensare quindi  qual è il drink a base gin più conosciuto? Ovviamente un meraviglioso Gin & Tonic vi verrà correttamente da dire…

Questa è la forza del gin. Quella di essere dentro un drink che accomuna tutti, belli e brutti, ceti sociali, location e momenti della giornata e ultimo ma non ultimo, il fatto di essere un drink intuitivo, semplice ma non banale e che tutti possono realizzare. Ecco perché il gin manterrà sempre una forza che altri distillati non riusciranno a mantenere»

– Quanti gin si producono oggi in Italia? Che senso ha produrre oggi un nuovo gin quando il mercato è così competitivo?

“Poco più di una decina di anni fa non si sarebbe mai pensato a un’esplosione di pari entità. Al tempo le etichette prodotte in Italia potevi tenerle a mente facilmente dato che si parlava di qualche decina di referenze. Oggi vantiamo diverse centinaia di etichette e con la velocità di crescita attuale non mi stupirei se a breve toccassimo il migliaio e questo fa anche capire la “facilità” produttiva che purtroppo va a discapito dell’originalità essendo questa, a mio modo di vedere, uno delle chiavi fondamentali per una produzione di successo. Se da un lato l’Italia presenta un numero così importante a livello di etichette, dall’altro abbiamo una grossa difficoltà nel posizionamento commerciale, elemento fondamentale per il successo di un brand, quello che viene semplicemente chiamata “rotazione”. Ecco questo è un dettaglio di non poco conto. Possiamo avere il liquido migliore, l’idea migliore, il packaging migliore, ma se non riusciamo a catturare il professionista il nostro prodotto non ruoterà in bottigliera. Credo che oggi produrre un “nuovo” brand sia cosa molto difficile, non tanto nell’operatività ma nello spazio di manovra. Il mercato è intasato letteralmente e quindi o hai un progetto “geniale” altrimenti di cose buone e belle il retail ne è pieno. Quello che va a vantaggio dei grandi brand è il prezzo, lavorando d’altronde su numeri maggiori rispetto alle molte altre aziende che ci circondano hanno un abbattimento dei costi e una potenza di fuoco che, su certe tipologie, li rende inarrivabili. Solo un piccolo monito, ricordatevi però che tutte le grandi aziende sono composte da persone e che l’autocelebrazione può rendere ciechi, mai sottovalutare il professionista e il consumatore…»



Le distillerie del Veneto producono ottimi gin. Banaventura Maschio produce il Gin Puro e il Gin Barmaster, Bonollo ha lanciato recentemente Ballor.

– Esiste un comune denominatore, qualcosa che li accomuna, per i gin italiani?

«Esiste il nostro Paese, questo è il nostro comune denominatore. Abbiamo la fortuna di essere parte di un ecosistema mediterraneo composto da una biodiversità imparagonabile nel pianeta e questo ci permette di avere la possibilità di “firmare” un valore aggiunto dove l’unico limite è la nostra fantasia e dove il Made in Italy all’estero è un valore aggiunto di non poco conto. Ora quello che dovremmo fare è omologare un sistema di produzione/composizione che diventi un clichè, un “Italian Style”. Una sorta di “tecnica/stile” di produzione che diventi ciò che è stato il London Dry Style Gin»

– Quanti gin hai nel tuo locale e quali sono le tipologie che vanno per la maggiore? Quanto pesa secondo te il packaging della bottiglia e l’etichetta nella scelta del consumatore?

«Presso la nostra gineria contiamo un 400 etichette circa, eccessive per la normale rotazione. Ma per me è anche elemento di studio sia qualitativo sia di confronto con la mia piazza, i miei consumatori. Puoi avere il miglior gin del mondo ma se il tuo cliente non lo apprezza rimarrà comodamente seduto in bottigliera. Oggi il cliente tendenzialmente beve molto morbido quindi i gin rotondi o con aromatizzazioni tendenti al fruttato sono quelli che vanno per la maggiore ma dove anche marketing e packaging hanno la loro buona fetta di merito. Quello che si sottovaluta molto per comodità è la forza del professionista. La nostra figura gode di un dettaglio fondamentale, che non puoi acquistare, si chiama credibilità verso il nostro cliente. Quante volte ci sentiamo dire la famosa frase: “fai tu…”. Ecco, questo “potere” è centrale per il buon posizionamento di un prodotto. Quanti bartender conoscete? E se ognuno di questi vendesse una sola bottiglia del vostro gin a settimana, quante bottiglie avreste prodotto a fine anno?»

– Esiste il consumatore tipo di gin?

«Esiste eccome ma la sua definizione, per usare un termine enologico, è di natura ampelografica. Cioè cambia molto in base alle zone in cui ci troviamo. La Spagna ha un identikit del consumatore diverso da quello anglosassone che a sua volta è diverso dall’italiano che peraltro mostra delle differenze comunque da nord a sud. Quindi non esiste un profilo del gusto generico, ma gestito in funzione di un’evoluzione palatale diversa. Oggi tendenzialmente il gin sta portando a dei profili molto più rotondi e avvolgenti a differenza dei grandi Dry Gin che hanno cavalcato gli anni ’80/’90. Attenzione, questo vale per il mondo Gin & Tonic in quanto per il mondo miscelazione la pulizia e l’equilibrio lo si ritrovano su profili più secchi. Un’ultima cosa: il consumatore tipo non ha un profilo anagrafico definito, quindi si va dal giovane ventenne che cerca un prodotto morbido all’adulto che beve un buon miscelato a base gin all’uomo di esperienza che non si fa mai mancare un gran Cocktail Martini»

– Da qui a cinque/dieci anni come vedi il futuro del gin? Qualcuno dice che è una bolla destinata a scoppiare prima o poi…

«A forza di dire che scoppierà, sicuramente succederà anche perché stiamo toccando numeri impressionanti, mai visti nella storia e che inevitabilmente stanno portando alla produzione anche di tantissimi minestroni giustificati dal fatto che tutto è già stato utilizzato, rivisto e riposizionato e quindi lo scoppio a mio parere non sarà causato da un calo dei consumi ma da una stasi dovuta a un eccesso propositivo che porterà a un “back to the future” ovvero a un ritorno alle origini del gin e perché no, magari forse proprio finalmente a un Italian Style Gin».

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